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Fellini e la grazia
E Fellini disse al gesuita: c’è la Grazia nella «Dolce vita» -
Un convegno sul regista riporta alla luce la celebre diatriba
che si aprì nel mondo cattolico
di Andrea Fagioli, Firenze
Un convegno a mezzo secolo da La dolce vita non poteva
non affrontare la questione dell’atteggiamento della Chiesa nei
confronti del film di Federico Fellini all’indomani dell’uscita nelle
sale in quell’ormai lontano febbraio 1960.
A parlarne, in occasione della ‘due giorni’ internazionale che si apre
oggi a Rimini, al Teatro degli Atti, sarà domani mattina un gesuita,
padre Virgilio Fantuzzi, anche perché (al di là che si tratti di uno
studioso di cinema, critico de «La Civiltà cattolica» e amico del
regista romagnolo) lo scontro, a suo tempo, avvenne proprio ‘in casa’
della Compagnia di Gesù: da una parte padre Nazareno Taddei, che su
«Letture » recensì positivamente il film, dall’altra i confratelli come
padre Enrico Baragli che su «La Civiltà cattolica» contraddicevano
l’opinione favorevole supportati anche da «L’Osservatore Romano».
Eppure, furono gli stessi superiori a dare a padre Taddei l’incarico di
una ‘lettura, ponderata e oggettiva’ per il loro mensile. «Rividi il
film diverse volte raccontava il gesuita massmediologo scomparso nel
2006 - . Ne discussi anche con lo stesso Fellini. Tuttavia, allora,
sentendo l’aria infida, chiesi ai superiori di dispensarmi dall’incarico
dell’articolo, ma essi mi diedero l’ordine di ‘santa obbedienza’, che è
l’ordine più solenne per un gesuita».
All’anteprima de La dolce vita al San Fedele di Milano, presenti
Fellini e Taddei, padre Arcangelo Favaro, fondatore e primo animatore
del Centro culturale, parlò di un film con il ‘sigillo della porpora’ in
base alla frase che il confratello padre Angelo Arpa aveva detto
arrivando da Genova dove aveva fatto vedere il film al cardinale
Giuseppe Siri, che lo aveva apprezzato. «Cosa che invece - raccontava
Taddei - non aveva fatto l’arcivescovo di Milano, il cardinale Giovanni
Battista Montini, che invece aveva raccolto le voci scandalizzate di
alcuni suoi collaboratori».
La dolce vita,
a giudizio di Taddei, trattava il tema della Grazia: «Il film lo
esplicitava con le immagini iniziali (l’arrivo della statua di Cristo in
elicottero) e con le immagini finali quando il protagonista, Marcello,
quasi ubriaco di stanchezza dopo una notte di bagordi, si trova con un
gruppo di persone in riva al mare, e Paolina, la cameriera che aveva
impressionato Marcello per la sua grazia innocente, si trova sorridente
al di là di un piccolo braccio di mare a chiamarlo. Marcello la vede, ma
non capisce e se ne va trascinato via da una delle donne del gruppo.
Paolina continua a sorridere, come a dire: ‘Vai pure, al prossimo bivio
mi troverai ancora lì ad aspettarti!’. La lettura era evidente, ma mi
sembrava difficile - aggiungeva Taddei - che Fellini avesse voluto
esprimere un tema così... teologico».
Negli incontri con il regista, il giovane religioso del San Fedele, che
pagò quella ‘lettura’ con l’esilio, non aveva mai parlato di ‘Grazia’.
Ma un giorno, all’improvviso, gli chiese: «Cos’è secondo te la Grazia?».
Fellini gli rispose di botto: «Che cos’è la Grazia se non quella realtà,
come Paolina, che tu non capisci e la rifiuti, ma lei sorride e ti dice:
‘Vai pure! Mi troverai sempre ad aspettarti’?».
Per Taddei si trattò di una «risposta teologicamente perfetta » , anche
se espressa con un linguaggio semplice, che comunque sintetizzava il
discorso fatto dal regista con immagini tutt’altro che devote. «Per
questo, forse - concludeva Taddei - , il film scatenò tante ire».
In una lettera dell’8 gennaio 1961, nell’accennare al suo nuovo film
(«che con molta probabilità dovrai difendere»), Fellini metteva
ironicamente in guardia Taddei dal rischio definitivo della ‘scomunica’
e poi aggiungeva: «Ti ho pensato spesso e a volte con un senso di acuto
rimorso, sebbene io non mi senta in colpa. E penso che un sentimento che
nasce da profonda gratitudine e da amicizia possa ricompensare qualunque
dispiacere, quando si ha anche solo la speranza di avere agito secondo
la convinzione della propria coscienza».
Avvenire, 15 novembre 2008