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Dottor Cinema
di Valentina Gerig
Invece di
intrugli e medicinali, a volte vedersi un film può essere un vero
toccasana. Non servono ricette e non ci sono controindicazioni. Mai
sentito parlare di…
Cineterapia?
Sta a vedere che un film al giorno toglie il medico di
torno. Sembrerebbe di sì. Il cinema, fin dalle sue origini, da quando i
fratelli Lumière proiettarono a Parigi le prime immagini in movimento,
ha una valenza di magia e meraviglia. Il buio in sala, le poltrone, il
silenzio, fanno sì che lo spettatore si immerga e si identifichi con
quello che vede, dimenticando il resto. Da allora a oggi, quelle prime
sequenze di vita sono diventate storie, racconti appassionanti,
indimenticabili, che lasciano traccia di sé anche una volta terminati i
titoli di coda. A dare un valore ufficiale alla potenzialità terapeutica
dei film ci ha pensato il dott. Gary Salomon, psicoterapeuta americano,
che all’inizio degli anni Novanta ha iniziato a “somministrare” ai suoi
pazienti cassette e dvd da vedersi a casa al posto di Prozac e compagnia
bella. Trattasi di “movie-therapy” o cineterapia, ovvero una cura
psicologica secondo cui numerosi disturbi della sfera psichica possono,
se non guarire, almeno essere controllati e attenuati grazie alla
visione di film da godersi sia al cinema come a casa. I film diventano
degli ottimi ricostituenti per la mente, aiutandola a elaborare i propri
malesseri. In momenti particolarmente dolorosi e tristi della vita,
vedere una pellicola che rappresenta una situazione in qualche maniera
simile a quella del nostro disagio può essere d’aiuto.
Le sfere di azione sono
infinite: traumi, rievocazioni di ricordi latenti o dimenticati,
problemi di comunicazione in famiglia o in coppia. Niente di più comune
che decidere di riguardarsi le storie d’amore per eccellenza stile “I
ponti di Madison County” in compagnia di un pacchetto di fazzoletti
quando il cuore è a pezzi o un Carlo Verdone dei tempi migliori se una
crisi di ansia e ipocondria imperversa. Per una giusta dose di
psicoanalisi e affari di cuore, è sempre consigliabile la visione di un
film a scelta tra quelli di Woody Allen. Come maestro di autoironia non
può fare che bene imparare a sdrammatizzare le proprie nevrosi e
ossessioni con un sorriso sulle labbra. Se si pensa sia solo masochismo,
bisogna invece tenere conto anche della valenza catartica che il film
offre. Assistere a una proiezione significa anche
rivivere una gamma di emozioni che normalmente sfuggiamo per eccessivo
coinvolgimento. Il cinema, permette infatti di mantenere una certa
distanza ma anche di condividere un tracciato emotivo. La scelta di
creare uno “spettatore inconsapevole” è stata anche una cifra stilistica
della storia del cinema. Nelle pellicole hollywoodiane classiche, il
montaggio, ovvero lo stacco tra una sequenza e un’altra, non doveva
creare disorientamento, interrogativi e confusione allo spettatore. Così
come la trama e le inquadrature. Come in un fiume che scorre lento, la
pellicola aveva il compito di cullare lo spettatore in un dolce
susseguirsi di immagini. Poi sono arrivati i maestri che hanno preferito
“scuotere” chi guarda, rendendo ben chiara la situazione di distacco che
vive lo spettatore.
Il cinema, comunque, fa parte dell’immaginario collettivo
e rappresenta un serbatoio di spunti e modelli che determinano un senso
di appartenenza. Per questo il meccanismo più comune e naturale è
l’identificazione in vizi e virtù di protagonisti che finiamo per amare,
fare nostri e imitare. Attenzione
però a non commettere gli stessi errori. Ovvero, se vi sentite un po’
Rossella O’Hara di Via col vento, non lamentatevi se all’ennesimo
capriccioso “Ci penserò domani”, vi viene rifilato un bel “Francamente
me ne infischio” da un fascinoso lui che ricorda tanto Rhett Butler.
Potrebbe avere davvero ragione.
Ticino7 del 15 novembre 2008