Home | Chi siamo? | Valori? | News and Next | Top List | Archivio | Stampa e articoli | Notizie e curiosità | Collegamenti | Contatto

Quando i valori «bucano» lo schermo

Alla ricerca di un'identità -
Celebrato a Roma il Festival di cinema spirituale "Tertio Millenio"

di Giorgio De Simone

 

Ieri, su «Repubblica», Pietro Citati ha illustrato cos’è per lui il tenente Colombo. Detto in un una parola, un irrinunciabile. Nel senso che, se anche si trova di fronte a un episodio visto e rivisto, non riesce a negarvisi.

Più che giusto, direi. Più che giusto perché anche a chi scrive capita, da sempre, la stessa cosa: tre o quattro volte ho visto un Colombo, ‘quel’ Colombo e non vi rinuncio. Non capisco perché dovrei, del resto. Colombo ha tutto per avvincermi: è di povere origini italiane e lavora a Los Angeles, città (se si può dire città) per me tremenda e avvincente, ha quell’impermeabile, quel braccio che si leva sempre a salutare l’assassino che interroga, ma più che interroga, scava, storce, ritorce semplicemente avvolgendolo in un gomitolo di sottile, compiaciuta complicità. Quante volte non mi sono, non ci siamo augurati un tenente Colombo per uno dei tanti delitti di casa nostra così reiteratamente non sbrogliabili e il più delle volte impuniti? Anche per questo, perché arriva a ‘fissare’ il colpevole con il ragionamento, l’intuizione, la sagacia e, come dice Citati, il genio, a Colombo non rinuncio. Come lui, lo confesso, per me ci sono solo Peppone e don Camillo. Che vengono dal genio (anche qui) di Giovannino Guareschi e (per i primi due episodi, poi si passò a Carmine Gallone) dalla mano felice di un regista francese, Julien Duvivier. Mi vergogno a dire le volte che ho rivisto quei due. Bravi, ‘efficaci’ secondo la critica, ma che non ci portano alle vette dell’arte. Non ci porteranno, ma come mai, a mezzo secolo di distanza, la coppia è ancora così trascinante e insuperabile?

La risposta che mi do è che, con loro come con Colombo, siamo di fronte a dei personaggi dalla forte connotazione morale. Colombo si muove sempre e solo sulla scena del delitto, ma la sua visione della vita non è quella, mai, del poliziotto cinico. La giustizia con lui arriva dopo essere salita su una scala di accordi umani e logici per finire con l’essere quale noi la vorremmo, la giustizia che vede i colpevoli portati a rendersi conto di aver commesso un delitto che è anche un’idiozia perché altera un ordine e oscura la convivenza civile. Quanto a Peppone/don Camillo, lì ci sono i buoni, anzi gli ottimi sentimenti portati nella storia a far vedere quanto contano: nella storia di un paese, Brescello, che è il mondo così come si configurava in quegli anni, spaccato tra ‘rossi’ e ‘bianchi’, ma capace, sempre, di trovare un senso comune, una comune morale. E dei valori condivisi che oggi, invece, nessuno vuole più condividere.

Così se c’è, come non può non esserci, una morale comune, questa nel cinema, nella letteratura, nell’arte non viene più fatta circolare perché non più universalmente avvertita e, se avvertita, non più chiara e innegabile. Non c’era una volta bisogno della distinzione oggi dominante tra laicità e religione perché la morale condivisa era laico-religiosa. Religiosa nel senso etimologico, capace cioè di tenere insieme, di legare, di unire (basta pensare a come stava insieme la famiglia anche non cattolica osservante): un senso del vivere oggi stolidamente perduto e che Colombo da un lato, don Camillo e Peppone dall’altro, ogni volta mi restituiscono. Per questo, credo, sto così bene con loro.

  

Avvenire del giovedì 10 gennaio 2008