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La TV può essere "buona maestra"?
di Elena Nieddu
Un'intervista - Parla il critico Aldo Grasso:«Siamo sommersi da cattiva qualità e perciò incapaci di cogliere i segnali di novità. Come i telefilm che dimostrano una tensione estetica e ripropongono temi forti propri della letteratura»:
«Penso a "Lost" e alle domande che pone sulla fede e sulla morte. O a "New York Police Department", con inquadrature indimenticabili sul crollo delle Torri Gemelle».Adesso ci si mettono anche i critici a dire che la tv non è così brutta come la si dipinge. La pensa così Aldo Grasso, autore della Storia della tv italiana, professore all'Università Cattolica di Milano e quotidiano delatore, sulle colonne del Corriere della Sera, degli scivoloni del circo catodico. Con un dribbling ubriacante spiazza compagni di squadra (leggasi: gli altri critici) e portiere (leggasi: il pubblico televisivo), e lo fa con eleganza, da giocatore esperto qual è. Con due sole parole, Buona maestra, che accostate e riferite alla tivù compongono il titolo del suo saggio sui telefilm, edito da Mondadori (Strade Blu). Parafrasa la «cattiva maestra televisione» teorizzata da Karl Popper, o meglio quella che del filosofo definisce l'«infelicissima frase» (nonché titolo di un pamphlet) e si dichiara orgoglioso di essere un «telefilo», ovvero un «cinefilo» pentito. Il motivo ha un nome, e si chiama telefilm. Grasso lo definisce senza mezzi termini una forma d'arte, «più importante - si legge nel sottotitolo - del cinema e dei libri». Ma perché mai proprio uno dei critici italiani più ascoltati e temuti spezzi una lancia in favore del piccolo schermo - mentre anche il presidente della Rai Claudio Petruccioli blocca i reality show e ammette implicitamente di non fare tv di qualità - è un mistero che merita di essere sondato.
Professor Grasso perché, dopo il
trash che ci rovescia addosso, dobbiamo considerare la tv una buona
maestra?
«Il mio è un gioco provocatorio: ormai la tv
è diventata, nell'opinione comune, l'origine di tutti i mali. È vero che
esiste la cattiva tv, ne siamo sommersi. Ma il punto è che ormai non
siamo più capaci di cogliere quello che di buono ha fatto. In realtà non
è mai stata così ricca di spunti. Checché ne pensino i nostalgici della
tv degli anni '50 e '60».
Perché, cos'aveva che non andava
la tv di quegli anni?
«Aveva un lato brutto e uno bello. Il lato
brutto: era carente sul lato dell'informazione, era una tv troppo poco
aperta».
E il lato positivo?
«Di bello aveva il seme della scoperta. Era
come un fiore che stava sbocciando, aveva la capacità di stupire e
meravigliare continuamente lo spettatore».
Più in profondità: cosa aveva,
in più, la tv di allora?
«Una forza dirompente, vulcanica. E
un'autorità che non ha mai più recuperato, in quanto era considerata un
settore privilegiato dello spettacolo. Oggi, invece, la realtà
televisiva è fatta di ore di palinsesto da riempire».
Cos'è successo nel frattempo?
«Una sorta di rivoluzione della tv, che si è
disancorata dal mondo dello spettacolo, per passare a "fare il verso"
alla vita».
Come nei reality show, che lei
nel suo libro definisce gli "hard discount della psicoanalisi". Ma dov'è
la sincerità, che sarebbe fondamentale in un rapporto paziente-analista?
«Per questo ho detto "hard discount". In
questi negozi non si compra certo roba di prima qualità. Però ognuno può
acquistare quello che vuole».
Ancora non si vede il lato buono
della tv, però.
«La televisione è una mela spaccata in due.
Da un lato c'è il prodotto che fa il verso alla realtà. Dall'altra, c'è
una tensione estetica interessante».
Dove, per cortesia?
«Nei telefilm: un genere che esprime
vitalità e coraggio, spingendosi a trattare anche argomenti complessi
della nostra società attuale, dal senso di solitudine alla morte, dalle
relazioni interpersonali alla malattia. Raramente trovo libri così
interessanti».
Può fare un esempio?
«Prendiamo Lost. Mette in scena un
naufragio, un topos della grande letteratura, con 48 superstiti
di un disastro aereo scaraventati su un'isola deserta. Ognuno di loro
scappa da qualcosa, da sensi di colpa precedenti, da rapporti finiti
male o da crimini commessi in guerra. In questo, nella minaccia viva e
continua della morte, esplode una delle lotte fondamentali del nostro
tempo: tra il c redere e il non credere, tra la fede e il razionalismo».
Temi forti, dunque, che secondo
lei le serie tv trattano meglio dei libri. Infatti lei scrive: «È
difficile che un ragazzo affidi le sue pene d'amore a un libro di Jane
Austen, ma è probabile che sappia tutto di O.C.». Non le sembra un po'
triste?
«Non direi: ogni generazione si forma
attraverso media diversi. In passato fonti di formazione sono stati il
cinema e i libri. Oggi è difficile che un ragazzino legga Stendhal o
Flaubert, quei testi che, ai nostri tempi, erano considerati
indispensabili. Il pericolo, certo, è la deriva totale. Ma i temi
classici che appartengono alla letteratura tornano ad affiorare nei
"teen drama": da Happy Days a Beverly Hills 90210, da
Oc a Dawson Creek. Anche i film di Spielberg erano punti di
riferimento per gli adolescenti, raccontavano il loro mondo».
Ma non c'è il rischio che i
giovani spediscano i libri in cantina?
«Di vero c'è che non leggono più, almeno in
questo momento. Ma c'è da dire un'altra cosa: il rapporto con la
cultura, attraverso le generazioni, è diventato metamorfico: in poche
parole, si veicolano e si recepiscono contenuti sotto forme sempre
diverse».
Facciamo un passo indietro,
torniamo alla tv buona e cattiva. Buono il telefilm, cattivo il reality
show. Buono il testo, cattivo il flusso?
«In realtà, anche il telefilm è flusso, pur
essendo di per sé un testo chiuso, perché è inserito in un meccanismo di
serialità. Peccato che chi redige i palinsesti, soprattutto in Italia,
non tenga conto di questo».
Cioè?
«I programmisti della tv generalista si sono
accorti da poco dell'importanza del genere telefilm. Fino a poco tempo
fa, il loro carattere seriale non era per nulla esaltato: quando c'era
un "buco" nella programmazione infilavano una puntata di una qualsiasi
serie, senza collocazione oraria precisa. Oppure, venivano trasmessi tre
episodi per volta di un prodotto che invece è pensato per avere cadenza
settimanale. In questo modo, non si dava al telespettatore il tempo di
metabolizzare. Ma c'è anche da dire che, ormai, la tv generalista è
diventata la terza visione».
E quali sono la prima e la
seconda, allora?
«La prima è Internet: con la rete posso
andare a cercare anticipazioni sui canali americani. La seconda è il
satellite, che ha riportato la precisione negli orari di messa in onda.
Accendo la tv e so che vedrò quella serie, quel film a una data ora».
Per concludere: i telefilm sono
invincibili?
«Il tallone d'Achille è il cambiamento.
Basta l'uscita di scena di un attore, o la sostituzione di un autore, e
una macchina perfetta rischia di incepparsi. Come è successo a Lost:
le prime due serie sono andate benissimo, la terza negli Stati uniti
scricchiola».
Una macchina, diceva
«Sì, che resta accesa 7, 8 mesi, il tempo di
una lunga produzione. E in quell'arco di tempo entra nella fiction anche
l'attualità. Ad esempio: in una puntata di New York Police Department
ci sono due inquadrature sul crollo delle Torri Gemelle, con i pompieri
che correvano a soccorrere le vittime. È perché la troupe stava girando
in quel momento. Non sarà storia, è vero, ma la tensione estetica è
altissima. Sono impressioni che ricorderò per tutta la vita».
Avvenire, 19 aprile 2007