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Cinema Paradiso: fascino & censura
di Alessandro Zaccuri
Il parroco che fa tagliare le scene poco «castigate», ma anche l'attenzione riservata fin dagli inizi alla «settima arte»... Un nuovo saggio analizza i complessi rapporti tra Chiesa e cinematografia
La sala è vuota, tranne il parroco seduto in prima fila. Sta visionando in anteprima la pellicola in cartellone e, ogni volta che sul grande schermo appare un bacio men che casto, ordina al proiezionista di tagliare, potare, emendare. Riconosciuto, no? È Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore (1988), un film che, ironia della sorte, deve la sua fortuna proprio ai tagli imposti dal produttore Franco Cristaldi. Eppure, perfino in questo caso ormai proverbiale, il rapporto fra cinema e Chiesa non è poi così semplice. Perché il prete eserciterà pure una forma di censura, va bene, ma ha anche qualche titolo per farlo, dato che la sala appartiene alla parrocchia. Interesse e controllo, prudenza e rischio non soltanto d'impresa: non si capisce che cosa è stato - e che cos'è - il cinema per la Chiesa se non si accetta quest'apparente contraddizione che nasconde piuttosto un salutare esercizio di educazione alla complessità. Anche per la Chiesa italiana?
Specialmente per la Chiesa italiana, verrebbe da rispondere dopo aver percorso i tre densi volumi di Attraverso lo schermo, nei quali Ruggero Eugeni e Dario E. Viganò hanno raccolto un'autorevole serie di contributi dedicati appunto a «cinema e cultura cattolica in Italia». Si comincia dall'inizio, e cioè da quando il cinema non era ancora il cinema, ma già la Chiesa si affidava a strumenti multimediali «poveri» per praticare la catechesi e promuovere lo svago (l'attività dell'Opera delle proiezioni luminose, ricostruita nel dettaglio da Deborah Toschi, è una piccola epopea dell'intrattenimento popolare che sarebbe piaciuta al Doctorow di Ragtime). Siamo nei primi anni del Novecento, quando gli intellettuali iniziano a interrogarsi su che cosa sia veramente il cinematografo. Abituata alla pratica non soltanto devozionale delle immagini, la Chiesa intuisce subito le potenzialità del nuovo mezzo, tanto che già nel 1898 Leone XII si lascia filmare da due cineasti americani. Coerentemente, le pellicole di ispirazione religiosa svolgono un ruolo importante nella nascente - e a tratti già traballante - industria cinematografica italiana, permettendo ai registi di elaborare un'autonoma iconografia cristologica che ha il suo punto più alto nell'oggi riscoperto Christus di Giulio Antamoro (1916).
Resta da capire, però, che cosa sia esattamente il cinema. Un'arte popolare che impone vigilanza, come dimostra negli anni Trenta l'appoggio della Santa Sede alla statunitense «Lega della decenza», che avrà un ruolo determinante nella messa a punto dei "codici" di moralizzazione hollywoodiana. Ma anche una nuova possibilità della percezione, come intuisce il fondatore dell'Università cattolica, padre Agostino Gemelli. Vanno in questa direzione il crescente interesse dimostrato dall'Osservatore romano, la nascita di testate specializzate, a partire da La Rivista del Cinematografo (1928), e la metamorfosi di Letture, il periodico dei gesuiti del Centro San Fedele di Milano che nel 1957 si assume l'impegno di una metodica riflessione sul cinema. Proprio Letture si trova, nel 1960, al centro di una polemica suscitata dal giudizio sostanzialmente favorevole riservato a La dolce vita di Federico Fellini, un film nel quale il recensore, padre Nazareno Taddei, ravvisa le tracce di una religiosità naturale, in chiara divergenza con il severo giudizio espresso dallo stesso Osservatore romano. Poco dopo, nel 1963, tocca ai francescani della Pro Civitate Christiana di Assisi intrattenere un fitto dialogo con Pier Paolo Pasolini, impegnato nella realizzazione de Il Vangelo secondo Matteo.
Ma prima ancora - e forse meno conosciuta fuori dall'ambito specialistico - c'era stata la collaborazione tra Roberto Rossellini e padre Félix Morlion, un sacerdote giunto in Italia durante la guerra inquadrato, a quanto pare, nell'Office of Strategic Service (l'antenato della Cia) e capace di teorizzare con grande lucidità la differenza tra «film religiosi e cattolici» e «film ultracattolici», che «si presentano come cattolici pur non potendo esserlo, l'aggettivo non potendo sussistere senza il sostantivo».
Una dimostrazione
di come, tra la primavera neorealista e la crisi degli anni Sessanta, si
sviluppi anche all'interno della cultura cattolica la consapevolezza di
quanto, per determinare la qualità religiosa di un'opera, lo stile
rivesta un ruolo non meno determinante del tema affrontato. Una
convinzione, questa, oggi ribadita dagli ormai numerosi festival che,
anche nel nostro Paese, mettono l'esperienza religiosa del cinema al
centro di una riflessione che, anche quando pare accontentarsi del
visibile, si apre puntualmente all'invisibile. Del resto, perché la luce
del proiettore illumini lo schermo, occorre che in sala ci sia buio. E
magari anche silenzio, come si addice all'incontro con il mistero.
Avvenire, 10 marzo 2007