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"Lost" in TV 1 - Perdersi cercando il senso di Lost

I misteri della celebre serie televisiva sono ben lungi dall'essere risolti

di Marina Marzelli

  

Jack, Kate, Sawyer, Hurley, Sayid, Locke e gli altri dell’Isola sono ancora in tv. Nella versione italiana la quarta serie di Lost è andata in onda sino al 17 agosto su TSI 2 e dal 28 luglio è ogni lunedì su Raidue. Ma siamo lontani dallo scioglimento di almeno qualche nodo e dall’avere le idee più chiare. Pare infatti che il cruccio dell’audience risieda nello scoprire se agli sceneggiatori alla fine riuscirà una spiegazione razionalmente accettabile. Sono annunciate altre stagioni e di tempo per sbrogliare la matassa ce ne sarebbe, ma dubito che verrà fuori una soluzione lineare, tipo «elementare, Watson ». Se chiarimento ci sarà, non sarà univoco, non andrà bene per tutti. A suggerirlo sono gli indizi disseminati, a partire dal nome di uno dei protagonisti: John Locke. Come il filosofo secondo il quale alcune realtà sono conoscibili dalla ragione, altre le sfuggono. C’è anche un’altra ragione più impalpabile ma profonda: Lost – attraverso le anime perse dei suoi personaggi – rispecchia, si potrebbe quasi dire che fotografa uno stato d’animo del mondo d’oggi. Un caos sotterraneo con cui ci si confronta ogni giorno, il disagio del chiedersi di chi fidarsi, chi sono gli amici e chi i nemici, chi ti sta forse intrappolando. Un’incertezza generalizzata, riguardante qui e ora ma anche un futuro poco decifrabile, senza risposte convincenti. E viene da pensare che la realtà batte comunque la fiction, perché rispetto ai mutui subprime, che hanno fatto tanto sconquasso e di cui la maggior parte di noi sino a un anno fa nemmeno conosceva l’esistenza, la presenza di orsi polari su un’isola tropicale (che può spostarsi) sembra un mistero quasi da poco. Ma il fascino e l’attrazione della serie stanno proprio nell’aver centrato preoccupazioni più o meno inconsce, nell’aver toccato quel nervo scoperto.

Però per incidere sull’immaginario in modo intrigante c’è bisogno di una fine qualità d’immagine e di scrittura. E Lost è un prodotto visivamente di qualità (molti esterni, effetti speciali, stile cinematografico – nonostante i ristretti tempi di realizzazione televisiva –, ritmo) mentre la scrittura, per gli standard americani di un lavoro confezionato allo scopo di veicolare pubblicità, è complessa e intessuta di sottotesti. La serie, con i suoi alti e bassi di ascolti (la quarta serie su TSI pare sia andata bene), si conferma una sfida per l’intelligenza e la pazienza dei telespettatori, naturalmente quelli fidelizzati e che accettano la regola del gioco: niente è ciò che sembra e nessuno ha il quadro completo di quel che capita, pubblico per primo. Perché la location principale di Lost è una nuova Isola che non c’è (almeno sulle carte), collegata al presente attraverso un passato al quale i protagonisti non possono sfuggire e un futuro «ai confini della realtà ». È dunque qualcosa che somiglia al funzionamento della mente umana.

Se l’Isola è un territorio della mente, Lost è un territorio della narrazione e un contenitore di tutti i generi (dramma, melodramma, catastrofico, horror, avventura, giallo, processuale, sentimentale, fantascientifico....) ed è alla fine inafferrabile come l’Isola. Dal punto di vista delle citazioni, tanto per fare un esempio, Sawyer (anche l’attore che lo interpreta è del Sud) ha un soprannome che rimanda a Mark Twain e nemmeno ci stupiremmo se il suo personaggio di antieroe sbottasse con un «francamente me ne infischio». O ancora, il manipolatore Ben legge un libro di Philip Dick, visionario autore di realtà alternative e soggettive. Insomma, a bordo del fantomatico volo 815 della Oceanic schiantatosi sull’Isola c’è anche un passeggero non registrato, il postmoderno.

 

Da Azione del 16 settembre 2008