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Tenerezza, simpatia e humour di una ragazzina con il pancione

Il 3 aprile al CineStar “Juno”, il film che è diventato un manifesto “Pro life”

di Mariarosa Mancuso*

 

Il 2007, per il cinema americano, è stato l’anno del pancione. Ma guai a dire che si tratta di film contro l’aborto. Guai a pensare che qualcosa è cambiato. Per esempio, che quando una ragazza annuncia «sono incinta», la risposta automatica non è «lo tieni?». Bensì: «Che bello!».

A volte le cose sono così evidenti che bisogna ripeterle. Il 2007, per il cinema americano, è stato l’anno delle donne con il pancione. Potevano essere cameriere con un marito manesco e un talento per la pasticceria (in Waitress di Adrienne Shelly). Potevano essere giornaliste appena promosse in video (in Molto incinta di Judd Apatow). Nessuna considerava l’aborto una soluzione. Se non per un attimo, magari su suggerimento di una sorella – «ora te ne liberi e pensi alla carriera, tra qualche anno farai un figlio vero» – subito respinto. Tra i film che nel 2007 raccontavano allegre gravidanze,
Juno
è il più sfacciato: ha per protagonista una sedicenne, rimasta incinta al primo colpo di un compagno di scuola (la bocca di lui sapeva di caramelline all’arancia, c’era una poltrona nei dintorni; insomma, faccende che capitano). (...) Juno porta a spasso il suo pancione, comportandosi per il resto come le ragazze alla sua età: rimbecca gli adulti, li prende e si prende in giro, cerca un cavaliere per il ballo della scuola.
Guai però a dire, avverte Natalia Aspesi con il ditino alzato – perché è più forte di lei, e perché negare l’evidenza richiede un sovrappiù di fatica – che questo sia un film contro l’aborto. Guai a dire che sono contro l’aborto anche gli altri due. Presi tutti insieme esauriscono – o quasi – le motivazioni che seguono la premessa «l’aborto è un dramma» (tanto ripetuta che ormai rischia di suonar vuota): carriera da avviare, giovane età, compagno bamboccione, matrimonio in sfacelo, «una botta e via» senza uso di gommino. Guai a dirlo. Giù le mani. Qui vigono i due pesi e le due misure, mica sarete tanto imbecilli da credere alle pari opportunità? Esempio. Da mesi sentiamo ripetere che Il petroliere di Paul Thomas Anderson denuncia l’avidità degli Stati Uniti (legati a doppio filo come il lupo e il vizio) e pure il loro fervore religioso, incline al fanatismo. Ma guai a dire, semplicemente: tre film con tre ragazze che non abortiscono –tutte e tre giovani, belle, e neanche particolarmente devote – segnalano che qualcosa è cambiato. (Per esempio, che quando una ragazza, in un film o fuori, annuncia «sono incinta», la risposta automatica non è «lo tieni?». Bensì: «Che bello!»). Da mesi sentiamo osannare George Clooney per aver messo a nudo, in Michael Clayton il cuore marcio delle multinazionali. Ma quando un regista inquadra una pancia di sei mesi sotto una maglietta a righe, vietato far notare che l’unica ragazzina protagonista al cinema da molti anni a questa parte – paragonabile per impatto al giovane Holden che plasmò le generazioni ormai nonne – è incinta e contenta di esserlo.
Da mesi professionisti e dilettanti sforzano le cellule grigie per dar conto del serial killer Chigurth in Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen (purtroppo rimasto orfano dello sceriffo Bell che avrebbe risolto l’arduo problema, sul taglio e piega abbiamo esaurito le battute). Guai però a dire come stanno le cose in un film che non abbisogna di spiegazioni: una ragazzina fa un figlio a sedici anni, senza morire d’invidia per le compagne di scuola che ancora possono permettersi la vita bassa. Per giunta, senza mostrare un briciolo di istinto materno, tanto che si affretta a cercare una coppia per crescere il pargolo.
(...) A nessuno è venuto in mente che se in un anno escono tre film da moratoria sull’aborto, e se i suddetti film guadagnano montagne di dollari, forse qualcosa è cambiato. Forse il lutto dell’11 settembre è stato elaborato, producendo un atteggiamento più speranzoso di quello che i commentatori stranieri rimproverano all’Italia (il tutto accadeva prima che cominciassero le primarie: gli slogan elettorali americani funzionano perché intercettano qualcosa di sensato). E nessuno, per favore, ripeta le sciocchezze sullo strapotere del cinema americano, o del suo marketing: due film su tre sono produzioni indipendenti a bassissimo costo; il terzo lo firma un comico finora noto soltanto per gli incassi, e le gag su un quarantenne che non riesce a disfarsi della verginità.
Prima dei magnifici tre (tutti grondanti amore e buonumore, nel caso non l’avessimo già detto) ricordiamo due soli altri titoli che parlavano di aborto. Citizen Ruth di Alexander Payne (il regista del vinicolo Sideways) e Palindromes
 di Todd Solondz, regista di Fuga dalla scuola media. (...) Il fatto che entrambi i film non fossero riassumibili con lo slogan: «L’aborto è un diritto » li ha resi sospetti (Citizen Ruth è uscito solo in videocassetta, Palindromes solo al Festival di Venezia).
(...) Juno siamo noi perché abbiamo l’impressione di conoscerla da sempre, e l’adoriamo anche se sono passati solo cinque minuti di film. Juno siamo noi perché il film è una favola, con tanto di morale della favola, tanto semplice che chiunque la capisce. «I’m a Cautionary Whale», annuncia la sedicenne, quando ormai il fagiolino che ha nella pancia è cresciuto parecchio, e gli amici si scansano per farla passare.
Il gioco è tra “Cautionary Tale”, che significa “favola con insegnamento morale” e “whale” che significa “balena”. (Sì, abbiamo detto “insegnamento morale”: non ne possiamo più di sentire, nei giorni dispari, l’elogio del “fai come ti pare” e nei giorni pari il lamento “sta gioventù, signora mia, non crede più a niente”. Urge una decisione).
Juno siamo noi. Tutti quelli che, come la simpatica sedicenne, non sopportano la frase “sessualmente attiva” pronunciata dall’addetta al consultorio mentre chiede di riempire il questionario di accettazione, senza saltare i dettagli scomodi (“fare l’amore” non rende meglio l’idea?). (...) Poiché la sceneggiatrice Diablo Cody non sbaglia un colpo, e non lascia nel suo ricamo fili pendenti, il “sessualmente attiva” tornerà più volte. Come tornerà la questione delle unghie: la matrigna di Juno (la mamma vera manda un cactus per le ricorrenze, ribattezzato “cactogramma”) lavora come “nail technician” in un salone di bellezza. Se ne serve per rimettere al suo posto la technician dell’ecografia, pronta a descrivere le minorenni come madri snaturate. Juno siamo noi, che mal sopportiamo il modo di parlare che (ultimo esempio pervenuto) affligge Vogliamo anche le rose di Alina Marazzi. La regista deplora nelle interviste «il retaggio maschilista», i diari garantiti genuini sono una frase fatta via l’altra, in femministese.
Juno siamo noi, e le ragazzine che postano su You Tube canzoncine autoprodotte per incitare «Dai che ce la fai!». Oppure mettono il loro profilo su Junoversal, una specie di Face Book per chi ha amato Juno(...) Juno siamo noi, e anche un po’ Lisa Schwartzbaum, critico di Entertainment Weekly che dopo aver molto lodato
Juno aggiunge un poscritto: «Da femminista della vecchia scuola, avrei preferito che il film spendesse qualche parola, bastava una battutina, per ricordare che Juno dà per scontate le faticose conquiste della generazione precedente». Poi ci ripensa, e aggiunge un poscritto al poscritto: «Contrordine: Juno, il suo fidanzatino, la loro generazione sono tanto deliziosi che mi sta bene così. Da tipi come loro sono disposta perfino a farmi dire “zitta, vecchiaccia!”». Proprio la stessa frase – nell’originale: «Silencio, old man!» – che Juno rivolge al droghiere che le ha venduto il quarto test di gravidanza. Probabilmente, anche il bidone di succo d’arancia che manda giù per poterli usare tutti e quattro prima dei titoli di testa.

* Estratto da “Il Foglio” del 9 marzo 2008

 

Nella foto a sinistra la giovane e talentuosa protagonista, Ellen Page che interpreta un’adolescente schietta e sicura di sé che riesce ad attraversare tutti i turbamenti emotivi di una gravidanza che la traghetterà dall’adolescenza all’età adulta.
A destra: il fidanzatino di Juno, Paulie, interpretato da Michael Cera.
Sotto: Ellen Page, la giovane e brava interprete del film

Ma quello «scarabocchio» non si può proprio cancellare

Lo sguardo nuovo dei ragazzi cambia la prospettiva degli adulti

di Daniela Persico**

 

Juno ha sedici anni, suona la musica rock e trascorre le sue giornate chiacchierando con la migliore amica. È una ragazzina che non usa giri di parole: sembra sapere cosa vuole, sempre. Eppure si ritrova con «uno scarabocchio che non si può più cancellare», come lo definisce lei. In quello che sta diventando il film manifesto pro-life è questa teenager americana, a tratti sfrontata e irriverente, ad affrontare una gravidanza inaspettata. E lo fa in una maniera talmente semplice e bella da ricevere le critiche appassionate anche di chi forse la sua scelta non la condivide fino in fondo.
Guardando Juno di Jason Reitman, che ha trionfato alla Festa del cinema di Roma e ha ottenuto un meritatissimo Oscar per la migliore sceneggiatura ( dell’ex- spogliarellista Diablo Cody), quasi ci si dimentica delle centinaia di film giovanilisti che riempiono ogni anno le nostre sale cinematografiche. Perché qui non ci sono adolescenti problematici e chiusi, disconnessi dal mondo che li circonda. In Juno i ragazzi sono talvolta confusi e tristi, ma sempre portatori di uno sguardo nuovo che riesce a cambiare la prospettiva degli adulti.
La confusione è scegliere di perdere la verginità per noia. La tristezza è non trovare negli adulti esempi costanti e riconoscibili. Lo sguardo nuovo sta tutto in una scelta: prendersi a cuore “un pasticcio” che è capitato all’improvviso, proprio l’unica volta che si è fatto l’amore e con un amico altrettanto impreparato.
Juno pensa ad abortire, ma è lo squallore del consultorio che la porta a una scelta diversa. O forse è l’incontro con una compagna di scuola che, cartellone alla mano, manifesta da sola contro l’aborto. Le dice, tutta accalorata: «Il tuo bambino ha già le unghie!». E Juno, che ha per matrigna un’estetista, non può non essere segnata da quel frammento d’umanità che sta portando nel grembo e che già esiste.
Ma avere un bambino a sedici anni non è certo facile. Vuol dire dover affrontare i genitori e le chiacchiere della scuola. Eppure la reazione della famiglia è inaspettatamente solidale, non problematizza la questione ma si impegna nel risolverla nel migliore dei modi: prendere vitamine, fare ginnastica, trovare una famiglia per l’adozione. Soprattutto avere sempre un attimo, anche a fine giornata, per chiacchierare con Juno e ascoltare i suoi turbamenti, coscienti che sta vivendo una situazione spesso «ben oltre il suo livello di maturità».
La caparbietà di Juno e l’abbraccio caldo di una famiglia sono solo il trampolino per la gestazione del bambino. Lungo i nove mesi in cui la pancia s’ingrossa a dismisura sul corpo minuto della giovane e talentuosa Ellen Page, Juno edifica giorno dopo giorno una speranza: l’amore può esistere. Il bambino cresce e un nuovo sentimento germoglia: l’affezione per un ragazzo, il padre di quel «fagiolo, pesciolino, gamberetto » che Juno ha dentro di sé. Un percorso condotto con una tale serietà che ad un certo punto sembrano questi due outsider del liceo la coppia più matura per crescere il loro bambino e non i sofisticati trentenni assediati dai loro piccoli egoismi. Perché è «questa gioventù nuova, questa gioventù diversa, questa gioventù che, alfine, vuole costruire e non più distruggere e distruggersi, è la vera luce, la vera, entusiasmante opposizione, la vera entusiasmante rivolta che il destino ineluttabilmente religioso dell’uomo registri: il destino di continuare ad apparire, a iniziare, a nascere», come scriveva Giovanni Testori nel lontano 1979. Una gioventù a cui però serve ancora tempo per prendersi pienamente la responsabilità di essere genitori. Per ora può tornare a suonare, più saggia e felice.

**Dal Giornale del Popolo del 31 marzo 2008